Perché
in questo periodo di crisi profonda della nostra economia le imposte
e tasse non vengono ridotte e, anzi, sono aumentate? Si dirà, a
parità di costi fissi pubblici (la spesa dello Stato per garantire i
servizi) col diminuire degli introiti privati (proprio perché
l'economia non riesce a sostenerne lo sforzo come faceva prima)
occorre colmare il differenziale che si viene a creare tra queste due
voci. In questo modo, basterebbe ridurre molto semplicemente la spesa
pubblica (magari con una seria spending review) ed il gioco sarebbe
fatto. In realtà... no. Le cose non stanno proprio così. Una
componente di cui non teniamo conto autorizza lo Stato ad aumentare
la pressione fiscale proprio in funzione di un rallentamento del
motore dell'economia, della cosiddetta crescita. Per spiegarlo, non
abbiamo che da ricercare la formula grazie al quale viene calcolato
il PIL:Y=C+G+I (X-M). Y è il valore del PIL, C è quello dei consumi
finali, G è la spesa dello Stato, I gli investimenti privati, X le
esportazioni e M le importazioni). Come si evince da questa semplice
raffigurazione, se calano tutti gli indici economici (C, I, X, M) lo
Stato può dichiarare ufficialmente di essere in crisi e, quindi, in
recessione o cercare di mascherare il risultato aumentando il valore
di G. Ricordiamoci che ogni variazione negativa del PIL si traduce
(per quei Paesi col fardello di un pesante debito pubblico) in un
aumento di interessi passivi. Lo Stato, da diversi anni, chiude il
bilancio con un avanzo (ovverossia raccoglie più denaro di quanto ne
spende), tuttavia, il debito pubblico è continuato a salire perché
l'economia è in recesso o (quando va meglio) è ferma. Bob Kennedy,
il
18 Marzo del 1968, pronunciò
presso l'università del Kansas un memorabile discorso sui difetti
del sistema PIL. Tutto il resto... è fiction.
Pier Giorgio Tomatis
Pier Giorgio Tomatis
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