Nel Myanmar prosegue
cruenta la lotta delle minoranze islamiche
E Yangoon accusa il
Bangladesh di armare i ribelli
La
ditttatura militare della Birmania (ora Myanmar) che opprime il paese
dal 1988, non perseguita solo i birmani ostili al regime e le
minoranze etniche che da oltre mezzo secolo sono in lotta contro il
governo centrale (Karen, Kachins, Shan), ma anche i musulmani (di
origine bengalo-malese), che raggiungono i tre milioni di individui e
che sono concentrati soprattutto nello Stato dell’Arakan, lungo il
confine con il Bangladesh. La regione dove è più virulenta la
resistenza islamica al brutale dominio dei militari birmani è quella
dell’antico Sultanato di Rohang, che fu invaso e occupato dagli
eserciti anglo-birmani nel 1823, incorporato nella Birmania (colonia
britannica) e definitivamente annesso alla Birmania nel 1948.
Tensioni tra i musulmani rohingyas e i dominanti birmani esistevano
già prima del colpo di Stato del generale Ne Win, avvenuto nel 1962,
ma è stato in seguito a questo (e alla brutale repressione del
dissenso islamico) che sono sorti i movimenti armati musulmani che
lottano tuttora contro le truppe di Yangoon dislocate nella regione.
Oggi, i principali movimenti guerriglieri dell’Islam birmano sono
l’Ale (Esercito di Liberazione dell’Arakan) e
l’Arno (Organizzazione Nazionale Arakan Rohingya),
in cui sono confluiti tre diversi movimenti armati: il Fronte
Islamico Arakan Rohingya (Arif), che resta il principale gruppo
indipendentista, guidato da Nurul Islam, e l’Organizzazione di
Solidarietà Rohingya (Rso) e l’Esercito Islamico Rohingya
(Ira), rispettivamente guidati da Yunus Zakaria e da Mohammad
Zakaria. Altrettanto attivi sono l’Organizzazione di Liberazione
Islamica Rohingya, il Fronte Islamico Arakan Rohingya,
l’Esercito Nazionale Rohingya, l’Harkat-ul-Mujahidin
e il Jihad Islamico di Birmania. Un frammentazione di gruppi e
movimenti che, ovviamente, non possono riuscire a sconfiggere
militarmente l’esercito birmano, ma che portano avanti da decenni
una guerriglia letale e sanguinosa, fatta di agguati, colpi di mano,
imboscate, che dissanguano anno dopo anno le forze militari birmane
dislocate nell’Arakan. Esattamente come avviene nei territori
abitati dalle altre etnie in lotta contro il governo centrale, questo
attua una feroce repressione anche nell’Arakan, bombardando le aree
in cui si rifugiano i guerriglieri del Jihad, colpendo le popolazioni
civili rurali, arrestando, incarcerando ed eliminando i militanti
islamici operanti nei centri abitati. Si tratta di una lotta dura,
brutale e spietata, portata avanti dalle milizie birmane con estrema
ferocia. Due di questi movimenti armati musulmani
(l’Harkat-ul-Mujahidin e il Jihad Islamico di Birmania)
hanno inviato propri combattenti in Afghanistan e in Iraq, ed ora i
loro reduci costituiscono la punta di diamante di questi gruppi
ribelli, che attuano contro le truppe birmane le tattiche di
guerriglia sperimentate in territorio afghano e iracheno contro i
soldati statunitensi.
Il Jihad,
ovvero la Guerra Santa lanciata dai gruppi musulmani contro il potere
centrale birmano, militarmente non riuscirà a trionfare, ma è certo
che continuerà finché i militari ultranazionalisti resteranno al
potere. Solo la caduta del regime e l’avvento di un governo
democratico che rispetti l’autonomia dei popoli e delle etnie in
cui è suddivisa la Birmania, potrà riportare la pace nel tormentato
Arakan così come nelle terre dei Karen e dei Kachins. E la leader
dell’opposizione democratica birmana Aung Sang Suu Kyi ha parlato
assai chiaro a tal proposito: per dare la libertà agli altri popoli
non birmani è necessario che prima ai birmani si liberino dalla
tirannide militare che li opprime. Ma Aung Sang è agli arresti
domiciliari e ogni tentativo di insurrezione dei birmani viene
soffocato nel sangue dalle milizie della dittatura. Così, il Jihad
dei musulmani birmani prosegue senza sosta, così come l’eroica
lotta di resistenza dei cristiani Karen. Una lotta di sopravvivenza
per non essere cancellati, per non scomparire sotto il rigido stivale
del centralismo, ma una lotta che, al tempo stesso, dovrebbe
costituire uno sprone per i birmani affinché si uniscano ed
insorgano contro la dittatura che li opprime e che vanta il triste
primato di essere una tra le più sanguinarie e repressive
dell’intero pianeta!
Fabrizio
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