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domenica 12 aprile 2015

Arakan: la Guerra Santa dei Rohingya contro l’oppressione militare




Nel Myanmar prosegue cruenta la lotta delle minoranze islamiche
E Yangoon accusa il Bangladesh di armare i ribelli

La ditttatura militare della Birmania (ora Myanmar) che opprime il paese dal 1988, non perseguita solo i birmani ostili al regime e le minoranze etniche che da oltre mezzo secolo sono in lotta contro il governo centrale (Karen, Kachins, Shan), ma anche i musulmani (di origine bengalo-malese), che raggiungono i tre milioni di individui e che sono concentrati soprattutto nello Stato dell’Arakan, lungo il confine con il Bangladesh. La regione dove è più virulenta la resistenza islamica al brutale dominio dei militari birmani è quella dell’antico Sultanato di Rohang, che fu invaso e occupato dagli eserciti anglo-birmani nel 1823, incorporato nella Birmania (colonia britannica) e definitivamente annesso alla Birmania nel 1948. Tensioni tra i musulmani rohingyas e i dominanti birmani esistevano già prima del colpo di Stato del generale Ne Win, avvenuto nel 1962, ma è stato in seguito a questo (e alla brutale repressione del dissenso islamico) che sono sorti i movimenti armati musulmani che lottano tuttora contro le truppe di Yangoon dislocate nella regione. Oggi, i principali movimenti guerriglieri dell’Islam birmano sono l’Ale (Esercito di Liberazione dell’Arakan) e l’Arno (Organizzazione Nazionale Arakan Rohingya), in cui sono confluiti tre diversi movimenti armati: il Fronte Islamico Arakan Rohingya (Arif), che resta il principale gruppo indipendentista, guidato da Nurul Islam, e l’Organizzazione di Solidarietà Rohingya (Rso) e l’Esercito Islamico Rohingya (Ira), rispettivamente guidati da Yunus Zakaria e da Mohammad Zakaria. Altrettanto attivi sono l’Organizzazione di Liberazione Islamica Rohingya, il Fronte Islamico Arakan Rohingya, l’Esercito Nazionale Rohingya, l’Harkat-ul-Mujahidin e il Jihad Islamico di Birmania. Un frammentazione di gruppi e movimenti che, ovviamente, non possono riuscire a sconfiggere militarmente l’esercito birmano, ma che portano avanti da decenni una guerriglia letale e sanguinosa, fatta di agguati, colpi di mano, imboscate, che dissanguano anno dopo anno le forze militari birmane dislocate nell’Arakan. Esattamente come avviene nei territori abitati dalle altre etnie in lotta contro il governo centrale, questo attua una feroce repressione anche nell’Arakan, bombardando le aree in cui si rifugiano i guerriglieri del Jihad, colpendo le popolazioni civili rurali, arrestando, incarcerando ed eliminando i militanti islamici operanti nei centri abitati. Si tratta di una lotta dura, brutale e spietata, portata avanti dalle milizie birmane con estrema ferocia. Due di questi movimenti armati musulmani (l’Harkat-ul-Mujahidin e il Jihad Islamico di Birmania) hanno inviato propri combattenti in Afghanistan e in Iraq, ed ora i loro reduci costituiscono la punta di diamante di questi gruppi ribelli, che attuano contro le truppe birmane le tattiche di guerriglia sperimentate in territorio afghano e iracheno contro i soldati statunitensi.
Il Jihad, ovvero la Guerra Santa lanciata dai gruppi musulmani contro il potere centrale birmano, militarmente non riuscirà a trionfare, ma è certo che continuerà finché i militari ultranazionalisti resteranno al potere. Solo la caduta del regime e l’avvento di un governo democratico che rispetti l’autonomia dei popoli e delle etnie in cui è suddivisa la Birmania, potrà riportare la pace nel tormentato Arakan così come nelle terre dei Karen e dei Kachins. E la leader dell’opposizione democratica birmana Aung Sang Suu Kyi ha parlato assai chiaro a tal proposito: per dare la libertà agli altri popoli non birmani è necessario che prima ai birmani si liberino dalla tirannide militare che li opprime. Ma Aung Sang è agli arresti domiciliari e ogni tentativo di insurrezione dei birmani viene soffocato nel sangue dalle milizie della dittatura. Così, il Jihad dei musulmani birmani prosegue senza sosta, così come l’eroica lotta di resistenza dei cristiani Karen. Una lotta di sopravvivenza per non essere cancellati, per non scomparire sotto il rigido stivale del centralismo, ma una lotta che, al tempo stesso, dovrebbe costituire uno sprone per i birmani affinché si uniscano ed insorgano contro la dittatura che li opprime e che vanta il triste primato di essere una tra le più sanguinarie e repressive dell’intero pianeta!

Fabrizio Legger





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